Le origini del Marsala
Le origini del Marsala
Le origini del Marsala
Le coste ventose di Marsala hanno accolto mercanti e avventurieri, che per mare raggiungevano questo angolo di Sicilia dalle terre più remote, fin dai tempi dei Fenici che hanno il merito di aver introdotto la viticoltura nell’Isola. Fin dai tempi antichi qui sono stati prodotti Vini dal carattere forte, legati alla carica zuccherina unica delle uve che maturano sotto il sole bruciante, ma bisogna aspettare il 1773 perché il mercante inglese John Woodhouse si innamorasse di questi Vini e ne apprezzasse il potenziale, tanto da volerne spedire alcune botti in Inghilterra, aggiungendo però una buona dose di acquavite. Così nasce il Marsala come lo conosciamo oggi.
Un Vino che ebbe un tale successo da attirare in Sicilia altri imprenditori inglesi decisi a produrlo, a cui in breve tempo si aggiunse il primo italiano, Vincenzo Florio. Arrivato anche lui per mare dalla Calabria, Vincenzo Florio si dedicò alla produzione di questo Vino fortificato unico, creando le suggestive Cantine nel 1833. La storia dei Florio è ricca di personaggi illustri, colti e amanti del bello e del buono, ma è anche una storia imprenditoriale di modernità e innovazione, che in un secolo e mezzo cambiò per sempre il volto economico dell’Isola. Le Cantine e il Marsala Florio ne sono vivida espressione, e ancora oggi portano avanti quello spirito forte, avanguardistico, sempre rivolto al futuro.
Lo stabilimento enologico Florio nell’800
Marsala, il siciliano che parla inglese
Gli inglesi giunsero sulle coste occidentali della Sicilia soprattutto durante il «decennio inglese» (1806-1815), in corrispondenza dell’insediamento a Palermo del re Ferdinando IV di Borbone e della sua corte, fuggiti da Napoli sotto la pressione delle truppe napoleoniche. Mercanti inglesi erano già presenti sull’isola da almeno un trentennio soprattutto a Messina, Palermo, Siracusa e Marsala. Proprio in questa città, intorno al 1773, sbarcò John Woodhouse, originario di Liverpool (1730-1813). Giunto per il commercio della barrilla (le ceneri di soda utilizzate nella produzione di sapone e vetro), fu “conquistato” dal Vino alto grado, che presto divenne il suo prodotto più celebre.
Il veliero Elisabeth di John Woodhouse
Marsala, il siciliano che parla inglese
Gli inglesi giunsero sulle coste occidentali della Sicilia soprattutto durante il «decennio inglese» (1806-1815), in corrispondenza dell’insediamento a Palermo del re Ferdinando IV di Borbone e della sua corte, fuggiti da Napoli sotto la pressione delle truppe napoleoniche. Mercanti inglesi erano già presenti sull’isola da almeno un trentennio soprattutto a Messina, Palermo, Siracusa e Marsala. Proprio in questa città, intorno al 1773, sbarcò John Woodhouse, originario di Liverpool (1730-1813). Giunto per il commercio della barrilla (le ceneri di soda utilizzate nella produzione di sapone e vetro), fu “conquistato” dal Vino alto grado, che presto divenne il suo prodotto più celebre.
Il veliero Elisabeth di John Woodhouse
Una lettera di John Woodhouse sui vini siciliani
Una leggenda da sfatare!
Perché John Woodhouse aggiunse alcool al carico di vini siciliani ad «uso Madera»?
La ragione ufficiale sostiene che l’addizione di distillato avrebbe permesso una migliore conservazione del vino stesso, bloccando qualsiasi insorgenza di rifermentazione e stabilizzando il prodotto durante il suo trasbordo. A ben vedere, però, i «robusti vini siciliani», se ben fatti, potevano raggiungere importanti gradazioni alcoliche (anche di 18 gradi), più che sufficienti, come sosteneva Stefano Zirilli (uno dei più importanti produttori vinicoli siciliani di fine ‘800) per «navigare fino alla fine del mondo».
Le aggiunte di acquavite, dunque, rispondevano all’esigenza di preservare la qualità del prodotto sottoposto a lunghi viaggi? Oppure nascevano da una precisa volontà del produttore di «conciare» i vini siciliani in modo che potessero essere più graditi ai loro destinatari? È questa la tesi suggerita da Rosario Lentini, acuto studioso della storia del Marsala. Il Dr Lentini, nel suo ultimo saggio “Sicilie del vino nell’800”, dimostra che il Woodhouse non agisse certo sotto la spinta del caso, tantomeno dell’empirismo.
ROSARIO LENTINI, Sicilie del vino nell’800, Palermo University Press, Palermo 2019, pp. 57.
“Factory Wine”
È certo, che dopo la prima, riuscitissima spedizione di vino, John Woodhouse e il figlio John Woodhouse junior si misero all’opera per razionalizzare il processo di alcolizzazione del Marsala fondando una vera e propria «Factory Wine» con alambicchi attivi tutto il giorno, maestranze specializzate per le fabbricazioni di botti e un reparto addetto alle chiarifiche e al mescolamento di acquavite nel vino. «Mi è stato detto», scriverà nel 1804 l’economista Paolo Balsamo, ben informato da persone interne agli stabilimenti, «che nella composizione dei rinomati vini di Woodhouse vi entra non meno del venticinque per cento, ossia la quarta parte, di eccellente acquavite. Medianteché egli li fa durare e resistere alla navigazione, e asseconda il gusto e le inclinazioni di quelli che ne devono fare l’acquisto». Se così stessero le cose, conclude Rosario Lentini, le aggiunte di acquavite risponderebbero davvero al «maggior apprezzamento nel mercato britannico dei vini a forte gradazione alcolica, più che a motivazioni eno-chimiche».
ROSARIO LENTINI, Sicilie del vino nell’800, Palermo University Press, Palermo 2019, pp. 57.
Etichetta storica Woodhouse
Un’etichetta di Marsala Woodhouse
Il decennio inglese
John Woodhouse “inventò” il Marsala, ma furono gli Inglesi a renderlo grande.
Mentre le prime spedizioni venivano accolte con favore e la famiglia Woodhouse iniziava a creare una realtà imprenditoriale basata sui vini fortificati, i primi anni del XIX secolo offrirono un’opportunità di sviluppo senza precedenti alla Sicilia del vino. Il conflitto tra la Francia e l’Inghilterra portò Napoleone, nel 1806, all’emanazione del Blocco Continentale, il divieto d’attracco in qualsiasi porto soggetto al dominio francese alle navi battenti bandiera britannica. In questo clima di embargo, la Sicilia era uno dei pochi porti franchi, roccaforte del re Ferdinando IV di Borbone, che proprio nel 1806 era dovuto fuggire da Napoli a Palermo sotto l’avanzata delle truppe napoleoniche. Ferdinando IV accettò la protezione degli Inglesi che utilizzarono la loro posizione di forza per trasformare la Sicilia in un avamposto strategico nel Mediterraneo. Non fu solo un’occupazione militare, ma un’operazione di protettorato su larga scala. La presenza dell’Inghilterra penetrò in tutti gli aspetti della vita sociale siciliana, con profondi influssi sulla politica, la cultura e, soprattutto, l’economia locale, che venne letteralmente stravolta dalla nuova impostazione capitalista.
Il Blocco Continentale favorì indirettamente anche il Marsala, che si preparava a prendere il posto occupato da vini come il Porto, il Madeira e lo Jerez, tagliati fuori dai trasporti britannici perché sotto controllo francese.
Dopo il 1806 giunsero in Sicilia decine di mercanti inglesi pronti a sviluppare il nuovo mercato. Su tutti, il mercante Benjamin Ingham (1784-1861) con i nipoti Whitaker, a cui non solo spetterà il primato delle vendite di Marsala nel mondo almeno fino alla metà del XIX secolo, ma un ruolo di primo piano nella vita politica e culturale della Sicilia ben oltre l’unificazione d’Italia.
“Meliorare” la qualità
Il maggior contributo degli Inglesi alla produzione del Marsala venne dal loro spirito razionale, pragmatico, d’impostazione capitalista. La Sicilia occidentale, che fino ad allora non aveva conosciuto l’industrializzazione, si trovò di fronte a un improvviso cambio di paradigma. John Woodhouse, almeno per i primi anni, si era limitato ad acquistare, alcolizzare e immagazzinare i vini siciliani; ora la nuova ondata di mercanti inglesi puntava a produrre Marsala su di una scala più ampia, combattendo la concorrenza non solo sul piano della quantità, ma soprattutto, su quello della qualità. Il Marsala, nato ad imitazione del Madeira, chiedeva di emanciparsi, ricercando le caratteristiche di una personalità più definita e peculiare.
A partire dai primi anni del XIX secolo, la spinta imprenditoriale degli inglesi rivoluzionò e perfezionò l’intera filiera del Marsala, a partire dalla viticoltura. Le famiglie Woodhouse e Ingham-Whitaker, per prime, si preoccuparono di elevare la qualità delle vendemmie, istituendo rapporti diretti con i coltivatori della zona.
Proverbiale, al limite della leggenda, è l’asino su cui John Woodhouse junior (figlio omonimo dell’inventore del Marsala) girava il Trapanese alla caccia dei migliori vini locali, dispensando consigli su viticoltura e vinificazioni. Più scientifico, e soprattutto documentato, l’operato di Benjamin Ingham che, dal 1830 in avanti, si preoccupava di fornire precise indicazioni ai suoi conferitori per «meliorare» la qualità dei loro mosti.
Un’ossessione, quella per l’ottima maturazione delle uve e l’eccellenza dei vini base, che Ingham non cesserà di ribadire abbastanza, fino a confezionare, nel 1837, una famosa circolare dal titolo «Brevi istruzioni per la vendemmia all’oggetto di migliorare la qualità dei vini». Il documento è un dettagliato decalogo di raccomandazioni sulla raccolta e il trattamento delle uve dalla pigiatura alla fermentazione, fino alla conservazione dei vini nelle «stipe» (le botti grandi).
Un particolare dei registri di Woodhouse
“Meliorare” la qualità
Il maggior contributo degli Inglesi alla produzione del Marsala venne dal loro spirito razionale, pragmatico, d’impostazione capitalista. La Sicilia occidentale, che fino ad allora non aveva conosciuto l’industrializzazione, si trovò di fronte a un improvviso cambio di paradigma. John Woodhouse, almeno per i primi anni, si era limitato ad acquistare, alcolizzare e immagazzinare i vini siciliani; ora la nuova ondata di mercanti inglesi puntava a produrre Marsala su di una scala più ampia, combattendo la concorrenza non solo sul piano della quantità, ma soprattutto, su quello della qualità. Il Marsala, nato ad imitazione del Madeira, chiedeva di emanciparsi, ricercando le caratteristiche di una personalità più definita e peculiare.
A partire dai primi anni del XIX secolo, la spinta imprenditoriale degli inglesi rivoluzionò e perfezionò l’intera filiera del Marsala, a partire dalla viticoltura. Le famiglie Woodhouse e Ingham-Whitaker, per prime, si preoccuparono di elevare la qualità delle vendemmie, istituendo rapporti diretti con i coltivatori della zona.
Proverbiale, al limite della leggenda, è l’asino su cui John Woodhouse junior (figlio omonimo dell’inventore del Marsala) girava il Trapanese alla caccia dei migliori vini locali, dispensando consigli su viticoltura e vinificazioni. Più scientifico, e soprattutto documentato, l’operato di Benjamin Ingham che, dal 1830 in avanti, si preoccupava di fornire precise indicazioni ai suoi conferitori per «meliorare» la qualità dei loro mosti.
Un’ossessione, quella per l’ottima maturazione delle uve e l’eccellenza dei vini base, che Ingham non cesserà di ribadire abbastanza, fino a confezionare, nel 1837, una famosa circolare dal titolo «Brevi istruzioni per la vendemmia all’oggetto di migliorare la qualità dei vini»2. Il documento è un dettagliato decalogo di raccomandazioni sulla raccolta e il trattamento delle uve dalla pigiatura alla fermentazione, fino alla conservazione dei vini nelle «stipe» (le botti grandi).
Un particolare dei registri di Woodhouse
Registro storico conservato nelle Cantine Florio
“La Bella Qualità”
Alcune di queste «istruzioni» appaiono elementari e talmente ovvie da dare la misura dell’arretratezza enologica del Trapanese e delle resistenze dei contadini alla creazione di vini «di bella qualità». Ma ci restituiscono anche la passione, la competenza e la mastodontica opera di «educazione imprenditoriale» che i mercanti inglesi condussero nel Marsalese.
Le disponibilità economiche delle famiglie mercantili fungevano da veri e propri istituti di credito per l’avviamento di nuove attività: attraverso prestiti e concessioni permettevano la messa a dimora di nuove vigne, richiamavano operai specializzati per la fabbricazione di botti, miglioravano la logistica del trasporto delle uve dai campi alle «Factory Wine» e dalle «Factory Wine» al porto di Marsala che, proprio grazie agli investimenti inglesi e ai loro dazi, divenne uno dei principali scali mediterranei.
Il risultato più evidente dell’invenzione del Marsala, tuttavia, fu il cambiamento della stessa geografia del luogo. Laddove verso la fine del 1700 esistevano campi incolti e per lo più dedicati alla pastorizia, nel 1820 si estendevano vigneti a perdita d’occhio, la cui qualità delle uve veniva attentamente monitorata, selezionata e trasformata da una delle industrie enologiche più attive, redditizie e tecnologicamente avanzate del mondo.
I Florio e il Marsala
La storia del Marsala italiano inizia nel 1833, quando Vincenzo Florio (1799-1868) decide di acquistare un terreno situato tra gli opifici di Woodhouse e degli Ingham-Withaker. L’obiettivo era fissato dal principio: «costruire una fabbrica destinata alla manifattura di vini all’uso di Madera», come ancora veniva chiamato il Marsala a quell’epoca. Gli inizi furono difficili e i profitti scarsi, soprattutto a causa della concorrenza inglese, praticamente inossidabile. Ma già al volgere della metà del XIX secolo, il Marsala dei Florio cominciava a erodere il monopolio britannico. Vincenzo Florio aveva un progetto industriale grandioso, fin dagli esordi, che supportò grazie agli ingenti capitali accumulati con il commercio delle spezie, le tonnare, l’industria dello zolfo e una flotta mercantile in forte espansione.
Lo stabilimento Florio nacque dunque con i caratteri di un opificio contemporaneo, fornito delle migliori attrezzature dell’epoca, ordinato secondo precise regole produttive e, soprattutto, già dotato di tutte le accortezze per la “concia” del Marsala, ovvero il complesso processo di alcolizzazione e affinamento che era alla base del suo vero prestigio.
Mentre la loro flotta veniva utilizzata per penetrare i mercati americani, inglesi ed europei con crescente successo, il Marsala dei Florio conquistava l’Italia, una piazza in forte crescita, praticamente ignorata dagli inglesi. I profitti guadagnati venivano reinvestiti in ampliamenti e tecnologie, tanto che, all’altezza del 1880, la «fattoria vinicola» dei Florio aveva ormai raggiunto le dimensioni di un complesso enologico all’avanguardia, con accesso diretto al mare, grandi magazzini per lo stoccaggio, l’affinamento dei vini e un alambicco, per distillare in loco l’acquavite necessaria alla produzione di Marsala.
Poster storico Marsala Florio
L’ingresso delle Cantine Florio
Le cantine storiche
Tra le cantine protagoniste della storia del Marsala, quella dei Florio fu l’ultima ad essere fondata, ma in un breve arco temporale si rivelò una delle più grandi, capace di superare per prestigio e vendite anche quelle dei corcorrenti inglesi, finendo addirittura per inglobarle.
L’ingresso delle Cantine Florio
Le cantine storiche
Tra le cantine protagoniste della storia del Marsala, quella dei Florio fu l’ultima ad essere fondata, ma in un breve arco temporale si rivelò una delle più grandi, capace di superare per prestigio e vendite anche quelle dei corcorrenti inglesi, finendo addirittura per inglobarle.